Che fine avranno fatto i Coreani?

Desidero pubblicare oggi in anteprima su questo mio blog, un estratto del libro autobiografico "Vita senza pace" di Aldo Ciappa, che sarà edito dalla Nicolo International Éditions prossimamente. 
All'occasione dello storico incontro tra i due Presidenti degli Stati Uniti e della Corea del Nord, questo estratto menziona un episodio di vita, uno stralcio, un ricordo dell'incontro con un gruppo di Coreani in Thailandia. Che fine avranno fatto, non si sa... Ma l'incontro ebbe luogo in un periodo cruciale per la vita dell'autore, quello del ritorno in Italia dopo dieci anni di vita trascorsi in Thailandia, e l'eredità di una figlia dovuta lasciar lontano e dell'esperienza traumatizzante del carcere thai.

Buona lettura!




"Alla fine anche le cose buone terminano. Fra discussioni e ordini mi portano via da Chiangmai, destinazione Immigration di Bangkok, ma, con la tipica complicazione Thai, via Chiang Rai, Bangkok è al sud a 500 km di distanza, Chiang Rai al Nord vicino al confine con la Birmania a 700 km da Bangkok…
Viaggio penoso in un furgone aperto con una gabbia come quelle per portare i polli.
Arriviamo a Chaing Rai e ci schiaffano all’ultimo piano della loro Immigration. Un enorme stanzone con tre cessi alla turca e due cubicoli con i serbatoi dell’acqua per lavarsi. Questo lussuoso attico è diviso in due per sessi. È occupatissimo. Un gruppo di coreani uomini donne ragazzi e bambini vi sono rinchiusi.
Sette uomini due ragazzini di 14 anni circa e una ventina di donne e ragazze di varia età e una bambina nata da poco.
 Ci assestiamo. Riesco ad impormi a tutti e chiedo che mi mandino a comprare sigarette, beni vari e soprattutto materiale per pulire i cessi. Prendo i soldi di tutti anche dei coreani, che chiedono sigarette a rotta di collo, mi faccio accompagnare da una guardia. Torno dal supermercato con le richieste e un bel po’ di sigarette nascoste (sempre un ottimo denaro in carcere).
Puliamo i cessi aiutati dai coreani che si dimostrano tipi simpatici sempre sorridenti e semplici. Arriva da mangiare, sia quello che ho comprato io per tutti sia quello che chi era detenuto ha ordinato. E ci mettiamo a mangiare seduti per razze, io con l’Inglese che si fa le celle dell’Immigration per non pagare un overstay. Bah! Chacun a son goũt
Curioso come sono, faccio muovere il limoncino a fare amicizia coi coreani e offro di scambiare qualche pezzo di cibo. Al ragazzino offro un pezzo di pizza e ottengo un pezzo di carne di agnello buonissimo, ma pieno di aglio (del resto nella loro lingua, "coreano" significa Mangiatori di Aglio). Cerchiamo di capirci e con un inglese pidgin, aiutati dal poco di cinese che il limoncino parla.
Scopro che sono un gruppo di saltimbanchi itineranti che provengono dalla Corea del Nord. Muoio di curiosità, ma mi freno: con gli Orientali devi esser paziente.
Finito di mangiare, loro si iniziano a rollare delle sigarette, con il tabacco spacca-stomaco thai. Offro in giro un pacchetto di Marlboro. Ho successo.
Nel giro di una giornata, mentre io mi gioco a poker qualche pacchetto di sigarette il limoncino fa la corte ad una delle coreane, bella va detto, giovane, bel corpo, bel sorriso e arrossisce spesso, venendo dalle estreme ragazze che puoi trovare in Thailandia può essere un piacevole diversivo.
Vengo così a scoprire cosa ci fanno ‘sta ventina di nord coreani al confine fra Birmania e Thailandia. Sono un gruppo famigliare, tutti imparentati fra loro, uno dei ragazzi di 14 che sta con i maschi è il nipote, ma i suoi genitori non ci sono. Sono rimasti a casa. Gli altri avevano ottenuto il permesso di andare in Cina a lavorare come saltimbanchi nei mercati di confine oltre il fiume Yalu.  Loro si erano caricati di oro, dollari e valuta cinese e si erano fatti a piedi in treno in bus dallo Yalu al confine con la Birmania. Una “passeggiata” di 5.000 km, a dir poco, che il gruppo si era regalata per arrivare alla libertà. A metà del viaggio, avevano preso contatto con dei loro parenti nel Sud della Corea per aiuto, perché non sapevano come passare la frontiera del Myanmar (Birmania) verso la Thailandia. Erano intervenuti diplomatici sudcoreani che li avevano attesi al confine birmano e li avevano fatti passare, nascosti in un furgone con targa diplomatica verso la Thailandia dove erano entrati chiedendo asilo politico. La parte più facile, dicevano, era stata passare attraverso la Birmania. Ne convenni. Le strade principali hanno un posto di controllo dell’esercito ogni 25/30 km, con soldati abbrutiti dal servizio  (tutti rigorosamente in tuta mimetica e infradito di gomma) che per un biglietto da 5 dollari e un pacchetto di sigarette avrebbero fatto passare anche un elefante bianco (parlo del 2007).
Arrivati al ponte di confine fra Birmania e Thailandia, avevano quindi chiesto asilo politico il quale gli fu concesso, posto che si facessero blindare all’Immigration, mentre veniva valutata la loro situazione. Erano lì ad aspettare con la tipica rassegnazione e pazienza orientale. I sudcoreani gli portavano ogni giorno da mangiare, medicine, sigarette (poche) e riviste per le donne.
Andammo avanti per due settimane, la storia del limoncino con la coreana fiorì, anche se erano di fatto separati da un corridoio e due reti metalliche e io ci rimisi una stecca di sigarette. Perché tomi tomi i coreani sapevano giocare a poker e mi fecero nero. Mi son fatto valere a poker in USA, Italia, Svizzera, Cambogia e Laos, ma quei due coreani erano bravi e fortunati. Roba da non crederci, c’è sempre da imparare!!
Alla fine arrivò l’ordine di muoversi. Per il “piacere” di essere spostati a Bangkok, pagammo mille baht a testa. Ci caricarono su un pullman  con la scorta di due poliziotti. Chi è intelligente in Thailandia non scappa dalla polizia: ti cercano, ti vedono, ti sparano, senza pietà. Fra i “normali” e i coreani eravamo una quarantina. Loro erano al settimo cielo. Ridevano, cantavano... Io me li guardavo.
Appena partiti, chiesi al poliziotto al comando di farci mangiare e farci comprare qualcosa in un supermarket. Acconsentì.
Lì, al supermercato, uscì fuori la vera natura dei coreani. Era il primo supermarket occidentale che vedevano, ma era uno di quelli piccoli a conduzione famigliare . Si sparsero dovunque comprando… tutto quel che vedevano. Anche manufatti che l’Immigration non gli avrebbe mai permesso di tenere. Fra me l’inglese e i due poliziotti riuscimmo a contenerli, ma a fatica. Dove non feci nulla fu alle birre, ne comprarono da ubriacare un reggimento. Avevamo tutta la notte di viaggio. Alla fine una ventina di deliziati nord coreani cantavano mentre controllavano i biscotti, i dolci, i dentifrici, le tovagliette, i calzini…
Io mi feci il viaggio nella cuccetta accanto al vano bagagli. Sapevo cosa mi aspettava a Bangkok. Una coperta, un cuscino e i tappi alle orecchie.

All’alba eravamo all’Immigration centrale di Bangkok, entrammo passando una mezza dozzina di pullman con a bordo la normale razione di cambogiani che avevano finito il loro turno, come carpentieri e muratori nei cantieri edili di Bangkok e che ovviamente venivano cortesemente riaccompagnati al confine, senza esser pagati……
Era presto e non c’era nessuno ad attenderci. Ci fecero accomodare nel cortile dove venivano mandati i vari detenuti dagli stanzoni a passare l’ora di aria. Il viaggio aveva provato tutti, chi aveva ecceduto con la birra, chi era rimasto sveglio a mangiucchiare e guardare la notte scappare davanti ai fari del pullman, anche me. 
Ci mettemmo seduti nel cortile. Avevano aperto l’accesso ai telefoni a pagamento e alcuni coreani ci si attaccarono, specialmente un 14enne che era lì con gli zii. Telefonò ai genitori per dirgli che era arrivato in Thailandia e quelli lo presero a male parole dicendogli che non volevano avere a che fare con chi era scappato dalla patria.... e tutte queste menate. Ovviamente avevano i telefoni controllati. Lui riattaccò singhiozzando. Io non lo avrei fatto chiamare, ma gli zii erano troppo eccitati per esser ormai arrivati a destinazione. Mah! Mi disse che sapeva che non avrebbe mai più visto i suoi genitori.
Riuniti in cerchio tirarono fuori dei flauti, dei tamburelli, una specie di chitarra e cominciarono a suonare una musica veloce e allegra. Due degli uomini (quelli che mi avevano fatto nero a poker…) iniziarono a danzare con un sorriso di felicità in volto da far piangere di commozione.  Man mano che andavano avanti con la danza si univano a loro una delle ragazze o uno dei ragazzi che poi li lasciavano. 
Andò  avanti per una ventina di minuti e io alzai gli occhi e vidi che dai palazzi che guardavano al cortile c’era gente affacciata che si godeva quel momento di pura semplice allegria. Come me.
Finì tutto, arrivarono i poliziotti iniziarono le burocrazie.
Loro li mandarono in un edificio dove tenevano i gruppi. A me, mi mandarono all’ultimo piano.
Uno stanzone con 80 persone, dei bagni molto grandi (e puliti) una piccola televisione. Ci ero già passato. Tre pasti al giorno, sempre lo stesso pollo piccante in brodo con riso e un uovo sodo. Se volevi alternative comperavi allo spaccio scatolame altre uova, altro riso, bibite.
Qui venivano detenuti quelli che erano illegali in Thailandia e dovevano essere espulsi, ma a spese del loro paese, non loro. La Thailandia non spendeva più che tre pasti, lo stanzone e una visita medica ogni settimana.
C’era gente assurda detenuta lì. Un irakeno che era lì da 4 anni e che nessuno in Irak voleva, girava senza fermarsi per lo stanzone e i bagni con una mano all’orecchio come se parlasse al cellulare. Un altro era un negro, mi pare del Dahomey, lì da 8 anni (otto!) che il Dahomey non voleva, anzi che nessuno voleva e aveva una sola aspirazione: parlare con il Papa. Come seppe che ero di Roma, mi si attaccò come una pulce finchè non ce lo mandai. A un certo punto si metteva seduto e entrava in trance a occhi aperti.
Per mia fortuna l’Ambasciata mi voleva via dalla Thailandia, per cui mi fece il biglietto di corsa, con i documenti di viaggio. Tornare in Italia mi spaventava, dieci anni erano passati. Qui lasciavo una figlia che nonostante non volessi, mi era venuta a trovare (rivedere tuo padre dietro le sbarre…). Ma tant’è, era una corrente a cui non potevo oppormi.

Arrivò il giorno fatidico. Raccolsi i miei bagagli, un borsone e una borsa. Non è che avessi molto. Misi in carica il cellulare mentre mi scannerizzavano le dita (niente inchiostri neri per le impronte all’Immigration di Bangkok, mini scanner) e cercavo di non pensare.

Ci sono momenti in cui è meglio non pensare, specialmente quando altri a cui non ti puoi opporre hanno deciso per te. Io sono fatto così. Lascio che le cose vadano e che il mio cervello vaghi di pensiero in pensiero. Trova sempre il bandolo della matassa.

Un simpatico poliziotto mi caricò sul pick-up della polizia, bianco-marrone, mi mise le manette, ma me le tolse come ci spostammo. All’aeroporto, prima il check-in, poi mi feci portare al Cambio. I soldi Thai duramente salvati nonostante quel che avevo regalato a Cristina, significarono ben 170 euro! Fortunatamente, comuni amici avevano avvisato la mia figlia più grande che mi sarebbe venuta a prendere, dove non lo sapevo ancora.
Sistemati i soldi e il bagaglio, dovevo passare l’attesa della chiamata del volo in una cella dell’Immigration di Bangkok. L’aeroporto era nuovo di due anni, le celle schifose come se avessero trasferito lì le più vecchie e puzzolenti della zona. Mollai, per evitare quel puzzo, dieci Euro al poliziotto, pari a 500 baht , abbastanza per comprarsi 10 bottiglie di birra e due settimane di city-food.  E ci spostammo verso l’imbarco. 
Mentre passavamo fra corridoi, scale mobili e cancelli chi ti incontro? I Coreani! Che stavano allegramente e rumorosamente avvicinandosi al cancello di imbarco per Seoul. Salutoni, abbracci, pacche sulle spalle, kwai alle signore (unire le mani come in preghiera davanti al viso con un piccolo inchino) e, come da copione, richiesta di sigarette da parte dei due compagni di gioco. Sorrisi e saluti e loro se ne vanno. Li guardo allontanarsi. Il poliziotto non vede l’ora di bersi i miei soldi e mi strattona. Un episodio della mia vita che si allontanava.

Ovviamente l’aereo in partenza è in ritardo. Il poliziotto mi saluta e toglie il disturbo. Mi appoggio su una panchina che ha al fianco la spina  per caricare la batteria. Chiamo Cristina. 
Sono le 16, dicono che ci vorrà ancora tempo. Intanto arrivano i passeggeri del volo. Sono 10 anni che non vedo tanti Italiani insieme. Casinari, consumistici, irrispettosi degli altri come solo noi Italiani all’estero sappiamo essere. 
Il carcere mi ha insegnato a mettermi da lato rispetto a chi fa casino. Così faccio e passo le successive 7 ore, solo, a leggere (prima di lasciare Chiangmai mi ero rifornito di libri in Inglese di seconda mano), mangiucchiare dei dolci.

Alla fine ci si imbarca. Per fortuna sono dietro.
C’è posto. Bene, vuol dire che posso sdraiarmi a dormire e che se servono pasta, chiedo il bis o il tris.
Lo steward sa chi sono perché ha copia dei miei documenti di viaggio per cui, vai!! Pasta a rotta di collo  (dopo 3 settimane di mangiare stando all’Immigration, mi mangerei anche il contenitore, ma mi contengo….) e poi prendo un copertina e mi sdraio su tre sedili e dormo. Duro fino a quando stiamo per atterrare.
Dopo 10 anni torno in Italia."

(Estratto tratto dal libro inedito "Vita senza pace" di Aldo Ciappa. All rights reserved Nicolo International Éditions, 2018).

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